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La Politica della parolaccia - Vince l’arte d’insultare, invece del ragionare ?




Azione Civica per Milazzo·


L’escalation degli insulti personali nel dibattito politico è una tendenza che riguarda tutto il mondo ed è legata ai social media. In Italia però i talk show politici hanno avuto un ruolo determinante nella costruzione del clima attuale.


Non s’insegna più ad argomentare e nel dibattito pubblico dominano turpiloquio, aggressioni verbali, calunnie. Ma oggi la brama di ottener ragione in modo poco onesto – con trucchi svelati già da Schopenhauer – ha reso i cittadini stanchi e diffidenti.

È diffuso il sentore che la civiltà dell’argomentazione se la passi male. Sembra fuori moda l’arte di persuadere con il ragionamento ed è scarsa la capacità di usare astuzie dialettiche. Così, si ricorre all’insulto, proferito di solito elevando il volume della voce, anche gesticolando e ripetendo espressioni tra loro sconnesse. Per molti conta prevaricare, ridurre gli altri al silenzio, anche con l’intimidazione. Neppure la lingua dei politici vi si sottrae.


Se si sbircia oltralpe, si notano modalità di interazione pacate. Per esempio, nei dibattiti politici durante la campagna per le elezioni politiche in Germania, è prevalsa la tendenza ad argomentare senza insulti o interruzioni e senza abbandonare il filo del ragionamento. In Italia, questo avviene di rado. Claudio Magris si chiedeva, già tempo fa, perché alcune regole del vivere civile da noi sembrino scomparse: «La violenza di questa degenerazione dei normali rapporti civili non risiede in una rozza maleducazione, ma nella sostanziale mancanza di rispetto che la genera» (La politica dell’insulto, «Corriere della Sera», 20 agosto 2010). Egli spiega il fenomeno come il risultato di «[…] una radicale trasformazione che, distruggendo le vecchie classi – la classica borghesia, il classico proletariato – in un processo che per altri aspetti è stato liberatorio, ha distrutto sensibilità, valori, regole che ritenevamo componenti essenziali del patrimonio genetico della nostra società e del nostro Paese». A suo avviso, questa trasformazione ha sconvolto pure la politica: sembra che «nessun insulto rivolto all’avversario politico, nessun gesto o termine disgustoso scandalizzi l’opinione pubblica».
A dire il vero, anche ai tempi di Togliatti si insultava alla grande: gli scarponi per prendere a calci «von De Gasperi» fecero inorridire il popolo dei moderati. I democristiani tuttavia non ricambiavano certi apprezzamenti, cui furono esposti costantemente. Ancora negli anni Settanta del Novecento la violenza verbale degli slogan avversi alla Dc era impressionante. La stagione del terrorismo indusse forse ad abbassare i toni. Anche in quel mondo moderato, comunque, gli insulti erano frequenti, ma vi erano stile ed erudizione: Nino Andreatta qualificò di «trafelato commercialista di Bari» il collega di governo Rino Formica, socialista, che replicò e alimentò la cosiddetta “lite delle comari”.
Negli ultimi anni, si insulta, ma senza arte, ed è un peccato; per fortuna, si sono persi anche gli ideologismi del passato. Certi discorsi di quarant’anni fa, carichi di odio contro i “borghesi”, erano assai più violenti degli improperi volgari che si odono oggi: se, a sinistra, l’on. D’Alema designa l’on. Brunetta come «energumeno tascabile», un personaggio dell’altra sponda politica prende di mira l’on. Rosy Bindi, «più bella che intelligente». L’insulto copre l’assenza di ragionamento. Il pubblico si diverte lì per lì, poi si gira dall’altra parte. Le ingiurie, anche le più oltraggiose, tanto più si usurano quanto più si ripetono. Persino espressioni volgarissime di un tempo – come il dannunziano «me ne frego» – sono oggi intercalari desemantizzati. L’erosione semantica muove a cercare altre espressioni, che mantengano la carica volgare originaria. Entrate nell’uso, anche queste si usurano e via di seguito. Nella storia delle lingue l’uso incessante ha rammollito o reso comiche tante espressioni un tempo ingiuriose.
L’insulto più à la mode si fa in absentia. A favorirlo sono anche i social media. Secondo Roberto Saviano, i commenti degli utenti di Facebook e Twitter «portano solo bile e veleno nelle vite di chi scrive e di chi legge.

Purtroppo questa entropia del linguaggio sta contagiando anche la comunicazione politica, sempre all’inseguimento della grande semplificazione, della chiacchiera divertente e leggera, della battuta risolutiva» («la Repubblica», 11 maggio 2013). Forse è la comunicazione pubblica in generale a rischiare di ridursi a small talk, a discorso vacuo, adatto alle relazioni superficiali e insincere che tocca spesso intraprendere per attestarsi in società e nella professione. L’insulto è superficiale quanto la «chiacchiera divertente e leggera». L’interazione verbale non raggiunge lo spessore di una comunicazione autentica, capace di promuovere il cambiamento delle persone coinvolte.
Se non si comunica, non si impegnano ragione (costruendo discorsi coerenti) ed emozione (coinvolgendosi in una dinamica interpersonale). Questo spessore umano fa sì che la comunicazione verbale non si possa ridurre a uno scambio di “informazioni”. I giovani sanno usare bene gli strumenti più complessi per trasmettersi messaggi “disincarnati”, ma la comunicazione ha ragioni interne che gli strumenti non manifestano. Per l’argomentazione, è essenziale ricostruire la dinamica del ragionamento, soprattutto nelle componenti implicite: molti presupposti, introdotti di soppiatto nella discussione, sfuggono a un’analisi sommaria e favoriscono una certa lettura della situazione.
Già Federigo Enriques – negli anni Venti del Novecento – invitava a riconoscere la necessità di insegnare l’uso della logica nella vita quotidiana. La qualità del dibattito pubblico è scadente perché in Italia la tecnica dell’argomentare è stata a lungo trascurata. È lecito ritenere che il dilagare dell’insulto becero, la scarsa propensione a ragionare non siano conseguenze di una rivoluzione sociale o culturale. Piuttosto, sono frutto di una lacuna che da scolastica è diventata culturale e ha marcato la nostra civiltà.
Da anni, peraltro, questa lacuna è evidente agli studiosi e agli insegnanti che dedicano attenzione nell’insegnamento all’analisi e alla costruzione di testi argomentativi: Luca Serianni vi ha dedicato una recente monografia. Anche nelle università vi è consapevolezza dell’urgenza di insegnare ad argomentare: ne è esempio il bel Manuale di scrittura di Marco Santambrogio.
Nella comunicazione verbale pubblica, l’argomentazione è praticata ampiamente nell’Europa continentale, ma ancor più nei Paesi di lingua inglese, nei quali continua, ininterrotta, l’eredità classica. Peraltro, in molti contesti, non solo dell’Occidente, proprio la crisi del principio di autorità ha favorito una riscoperta del sapere argomentativo tradizionale: posto che non si accettano più le tesi imposte dall’alto, si intraprendono ragionamenti per giustificare, obiettare, criticare. L’Italia non sembra parteciparvi. Forse vi è scarso interesse per la comunicazione perché è venuto meno un presupposto essenziale: la fiducia nell’interlocutore e nelle virtù sociali dell’argomentare. Da una parte, si ritiene inutile esporre un ragionamento perché anche la migliore argomentazione non sarà convincente, data la generale diffidenza reciproca. Dall’altra parte, non si conosce a sufficienza la tecnica dell’argomentare in modo “virtuoso”, corretto. Né si ha consapevolezza delle tecniche manipolatorie più diffuse. Alcune furono ben descritte da Arthur Schopenhauer nell’Arte di aver ragione (Die Kunst Recht zu behalten), che offre un aperçu di stratagemmi ampiamente sfruttati dagli “addetti ai livori”. E già Schopenhauer consigliava di passare agli insulti, quando gli argomenti non smuovono l’interlocutore. Oppure, suggeriva di impiegare generosamente certi trucchi antichi che durante il Novecento si sono poi consolidati nelle pratiche della propaganda politica e della comunicazione pubblicitaria.
I trucchi, alla lunga, si scoprono e si avverte una certa stanchezza nei confronti di chi li usa. Con frequenza, personaggi pubblici invitano l’uditorio a controllare la qualità di un argomento e rimproverano l’avversario che ricorre all’insulto, tanto che questa critica è diventata un luogo comune nel discorso (cioè non manca quasi mai il biasimo degli avversari per la presunta loro scarsa propensione ad argomentare). A volte, anche i santarellini sanno parare i colpi comme il faut… Per esempio, è accaduto che Beppe Grillo abbia beffeggiato Enrico Letta, per via di quello zio potente che alberga nel centrodestra. Letta replica dicendo che «Grillo la butta sull’insulto personale» perché «non ha molti argomenti: lui insulta, io voglio occuparmi di problemi del Paese» (Ansa, 10 maggio 2013). Si definiscono così due campi contrapposti: vi è chi insulta e chi si occupa di problemi del Paese. A dare il nome alle due parti è Enrico Letta, che descrive positivamente quella propria e negativamente quella di Grillo. Quest’ultimo impiegherebbe certamente espressioni ben diverse per riferirsi a chi si trova al governo… Letta impiega uno stratagemma che troviamo già ben descritto da Schopenhauer: chiamare le cose con nomi che servono per far vincere il proprio punto di vista. «Un oratore rivela spesso in anticipo la sua intenzione attraverso i nomi che egli dà alle cose. Uno dice il clero, l’altro i preti. Fra tutti gli stratagemmi, questo è usato molto frequentemente, istintivamente» (L’arte di ottenere ragione, Newton Compton, Roma 2013, p. 86).
Le fallacie tradizionali sono argomenti sbagliati in qualche loro aspetto. Esse trovano largo impiego nella comunicazione pubblica, sia deliberatamente (e si hanno Trugschlüsse, inganni dialettici) sia inconsapevolmente (e si producono Fehlschlüsse, cioè conclusioni sbagliate). Così, per esempio, l’uditorio si convince che una certa posizione politica è migliore di un’altra perché è stata sostenuta pubblicamente da qualche attrice famosa (la quale, magari, non si rende conto di esercitare una manipolazione): questo è un argumentum ad verecundiam, diceva John Locke, perché la fama del personaggio è invocata come garanzia della validità di un argomento. Che dire, poi, dell’argumentum ad hominem, praticato ampiamente, nel quale si attacca l’individuo invece delle sue affermazioni (taci, tu, che…; uno come lei deve stare zitto e simili)? Se ne trovano esempi in ogni talk show. Persino una nota battuta di Alberto Sordi nelle vesti del marchese del Grillo ha una carica argomentativa ad hominem (io sono io e voi non siete un…). L’argumentum ad baculum (la minaccia del bastone) è invece il beniamino di chi apprezza le maniere forti, sia nei regimi totalitari sia nei rapporti professionali e di lavoro; la forza è nemica della ragione, ma la paura del dolore può indurre a “confessare”, abbreviando la discussione, o a fare autocritica.
Più degli insulti, a rendere incerto e infido l’uditorio è forse l’uso esteso di certi espedienti, che ormai sono scoperti. Si è esagerato con l’arte di ottenere ragione in modo poco onesto e il pubblico, generalizzando, accoglie ogni ragionamento con diffidenza. Prima di insegnare a trovare ragioni convincenti a sostegno di una tesi, occorre forse ridare fiducia nella pratica argomentativa buona e trasparente. Essa è fattore costitutivo della società e della democrazia.


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Tratto da

Vita e Pensiero Vita e Pensiero - Pubblicazioni dell'Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1 - 20123 Mila




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