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Dialoghi «Donna, vita, libertà», il grido del popolo iraniano



Dialoghi
«Donna, vita, libertà», il grido del popolo iraniano
Riccardo Cristiano
Parisa NAZARI
Giuseppe RIGGIO










Da settembre 2022, dopo l’arresto e la morte per mano della polizia morale religiosa della ventiduenne Mahsa Amini, il popolo iraniano non ha più smesso di manifestare contro il regime di Teheran.

A scendere in piazza sono state in prima battuta le donne, che bruciavano i propri veli e si tagliavano i capelli scandendo lo slogan «Donna, vita, libertà», nato una decina di anni fa e usato dalle donne curde che lottavano contro l’Isis. Sono state poi seguite e sostenute anche dagli uomini, consapevoli che il fondamentalismo religioso è un nemico comune. Soprattutto hanno iniziato a manifestare i giovani universitari, ricorrendo a modi pacifici, come gli “schiaffi al turbante”, o gli “abbracci per chi soffre” nelle strade delle città, oppure infrangendo il divieto di mangiare insieme, uomini e donne, nelle mense universitarie.

Nonostante la repressione dura del regime – sono numerose le persone arrestate, ferite o uccise in occasione delle manifestazioni e ci sono state le prime esecuzioni dopo processi sommari – le proteste continuano e raccolgono un sostegno progressivamente più ampio. Non è la prima volta che l’Iran è scosso da manifestazioni, oggi però assistiamo a una solidarietà nuova e diffusa in tutto il Paese, con donne e giovani come protagonisti.

Ne abbiamo parlato con Parisa Nazari, attivista dei diritti umani e mediatrice interculturale nata e cresciuta a Teheran e che si è trasferita in Italia nel 1996. Di seguito un estratto dell’ampia intervista - riservata agli abbonati - che abbiamo pubblicato nel numero di gennaio 2023.


Prima di approfondire quanto sta accadendo negli ultimi mesi in Iran, con le proteste scoppiate in tante città a seguito della morte di Mahsa Amini, può aiutarci a capire meglio qual è il clima sociale e culturale del suo Paese a 44 anni di distanza dalla rivoluzione che portò alla caduta dello scià e alla nascita della Repubblica islamica?


Da molti anni l’Iran sta vivendo una stagione di fermento culturale molto interessante a livello di tutta la società. L’istruzione universitaria è divenuta una priorità per le famiglie iraniane, che investono moltissimo per la formazione dei figli. Non era così nel 1979, l’anno della rivoluzione, quando la maggioranza della popolazione era analfabeta e solo un’élite, soprattutto di sinistra, aveva avuto la possibilità di studiare nelle università iraniane o all’estero. In questi decenni, si è formata una forza umana istruita, laureata e spesso anche plurilaureata, composta in maggioranza da donne, le quali hanno capito che l’istruzione è la strada per essere più consapevoli dei propri diritti e divenire protagoniste nella società civile iraniana. Quest’ultima è abbastanza giovane, dato che si è formata dopo la guerra tra Iran e Iraq (1980-1988), sostanzialmente con l’ascesa al potere dei riformisti che hanno permesso una parziale libertà di espressione, riducendo la censura sui giornali, i libri o gli eventi culturali rispetto agli anni precedenti.

Il periodo del riformismo si è concluso nel 2005, quando venne eletto presidente Mahmud Ahmadinejad, poi riconfermato nella carica a seguito di contestate elezioni nel 2009. In quell’occasione, gli iraniani sono scesi in piazza, protestando in modo pacifico, a volte in silenzio oppure gridando slogan in cui chiedevano dove fosse finito il loro voto. Attraverso queste manifestazioni, conosciute con il nome di “movimento verde”, gli iraniani cercavano di partecipare alla vita sociale e politica del Paese. Ma la riconferma dell’ultraconservatore Ahmadinejad come presidente, scelto dalle autorità religiose per fermare i riformisti, i cui leader sono ancora agli arresti domiciliari senza un processo, ha fatto sì che la fiducia degli iraniani nelle riforme diminuisse drasticamente. Oggi, a tredici anni di distanza da quegli eventi, gli iraniani non credono più che queste verranno realizzate e vogliono vivere in un Paese libero e democratico. La società civile è molto progressista e guarda all’Occidente. Malgrado la censura e la mancanza di libertà di espressione, il lavoro sul piano culturale degli ultimi anni ha fatto crescere nei cittadini iraniani la consapevolezza dei propri diritti, anche di quelli negati. Non a caso, molti registi, scrittori, poeti e protagonisti della scena culturale iraniana si trovano in questo momento in carcere per aver espresso un’opinione diversa rispetto all’idea che la Repubblica islamica vuole dare di una società iraniana coesa, che sostiene il regime in tutto e per tutto.

A tre anni di distanza da quelle proteste legate alla situazione economica, il popolo iraniano, con le donne in prima fila, è tornato in piazza. Perché?

 

La morte di Mahsa Amini è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Da decenni la polizia morale, che nel tempo ha cambiato il nome ma non la sostanza, ha il compito di “rieducare” le donne al codice di abbigliamento islamico secondo un’interpretazione della sharia che richiede alle donne di essere modeste, invisibili, per non indurre gli uomini al peccato. Quando si ritiene che le donne non rispettino la sharia, vengono arrestate, condotte in luoghi di detenzione dove la loro dignità viene calpestata, sono trattate come criminali e possono essere condannate al pagamento di una multa o anche a pene più severe.

Questa situazione non è più accettata, soprattutto dalla parte istruita e progressista della società iraniana. Alcuni anni fa è stata promossa da attiviste e attivisti una campagna per informare le donne sui loro diritti, quelli riconosciuti e quelli negati, ed è stata lanciata la raccolta di un milione di firme da presentare al Parlamento per chiedere la modifica delle leggi discriminatorie contro le donne. Anche se l’iniziativa è stata fermata dalla Repubblica islamica, che ha arrestato moltissimi attivisti e ne ha costretti altri ad andare in esilio, la campagna è stata importante perché ha fatto crescere la consapevolezza nella società civile. In particolare, i giovani della Generazione Z, nati tra il 1997 e il 2012, hanno una visione diversa del mondo grazie a quanto vedono attraverso i social network e i loro genitori, divenuti progressivamente più attenti alla questione dei diritti, non vogliono che i propri figli crescano in una teocrazia che ne riduce le libertà fondamentali, sulla base di un’interpretazione della sharia risalente a 1400 anni fa che rinchiude la donna nel ruolo di madre, figlia, sorella o moglie, e limita i diritti umani di tutte le minoranze.

Ovviamente ci sono parti del Paese dove non è così; spesso si tratta delle regioni abitate dalle minoranze, dove c’è una società patriarcale tradizionalista che non riconosce molti diritti alle donne e il livello di istruzione è più basso. Ma anche in queste aree gli uomini sempre più spesso sono vicino alle donne. Ho sentito discorsi molto profondi e commoventi di padri che al momento della sepoltura dei propri figli dicevano che le donne sono in prima linea in questa battaglia, che sono il motore del cambiamento e che come uomini è necessario star loro accanto. In questa occasione, le donne sono sicuramente al centro di queste rivolte, ma gli uomini sono al loro fianco, rifiutando di continuare a vivere in una società in cui esse sono discriminate sistematicamente da leggi misogine e la loro dignità è calpestata. Donne e uomini insieme sono pronti a sacrificare la propria vita in questa lotta estremamente pacifica, non violenta, in cui i manifestanti gridano lo slogan «Donna, vita, libertà», che era utilizzato dalle donne nel Kurdistan, la terra di Mahsa Amini, nella resistenza all’Isis, oppure «No alla dittatura», e non si fermano, nonostante la repressione dei manifestanti venga attuata con forme di violenza inaudite: molti di loro sono stati arrestati e di alcuni non si hanno più notizie.

Per le proteste in atto in queste settimane c’è una qualche forma di coordinamento, di leadership? Vi è una visione comune sul futuro del Paese?

La prima manifestazione spontanea è stata in Kurdistan, durante il funerale di Mahsa Amini. In quella occasione, per la prima volta, le donne hanno gridato lo slogan «Donna, vita, libertà» e hanno dato fuoco ai veli. In seguito, le manifestazioni si sono moltiplicate in tante città iraniane, piccole e grandi, quasi sempre in modo spontaneo, a differenza di quanto era accaduto nel 2009, quando c’era un leader che chiamava la gente a protestare in piazza. Il carattere spontaneo rende più difficile la repressione da parte delle forze dell’ordine, che non riescono a conoscere in anticipo i luoghi e i tempi delle proteste. Inoltre, in questo modo, non si hanno manifestazioni di massa e così si evita che ci sia un bagno di sangue, come purtroppo è accaduto in alcune regioni del Paese, ad esempio il Baluchistan, a causa della repressione brutale e senza scrupoli delle forze dell’ordine che hanno sparato sulla folla, colpendo anche alcuni bambini che si trovavano nei luoghi delle proteste. In alcune momenti particolari, vi sono state convocazioni per la protesta rese note in anticipo, come nel caso del ricordo di alcuni giovani a quaranta giorni dalla loro morte [una ricorrenza che è ricordata in Iran, N.d.R.], oppure della proclamazione degli scioperi generali. La preoccupazione per la sorte delle quasi 20mila persone arrestate è grande, di alcune di loro non si hanno più notizie, altri sono in cella di isolamento, privati dell’assistenza legale, e il regime ha fatto eseguire le prime condanne a morte per impiccagione dei manifestanti arrestati. Si tratta di studenti prelevati dai campus universitari, di attivisti arrestati all’interno delle proprie case, di sindacalisti. Molti di loro sono giovani e giovanissimi, incarcerati insieme agli adulti.

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