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Recensione Alle porte dell'alba di Cettina Costa





La recensione della scrittrice Cettina Costa sul romanzo “Alle porte dell’alba” di Giovanni Albano, presentato il 13/03/2023 nell’ Auditorium dell’Ordine dei Medici di Messina. L’evento, a cura dell’AMMI, è stato condotto egregiamente da Rosellina Zamblera. Tra le Associazioni presenti all’evento, la TESEO di Milazzo, presieduta da Attilio Andriolo, e la FIDAPA di Giardini-Naxos, presieduta da Alessia Barbagallo.”

“Alle porte dell’alba”, ultimo romanzo dello scrittore Giovanni albano, è un libro che si può senz’altro definire “potente” e di forte impatto emotivo, un libro che lascia il segno per quella sua peculiarità di inchiodare il lettore a delle pagine dove trovi una lucida analisi, per certi versi anche spietata, di un tormento. Un tormento che non è solo fisico ma anche intimamente profondo, il tormento di un uomo, Luca Montelli, condannato, per una rara forma di leucemia, a lasciare presto questa vita.

Colpisce sicuramente chi si approccia alla lettura delle prime pagine, l’esordio, che non è dei più soft. È un esordio che ti fa toccare con mano, fino a fartelo quasi sentire sulla pelle, il dolore fisico del protagonista, attraverso una minuziosa descrizione dei sintomi della malattia, che lascia intravedere una vera conoscenza della medicina, come è ovvio che sia da parte di un autore che non è solo uno scrittore ma anche un medico.

Nello stesso tempo, questa dimensione dell’uomo malato, con la sua insopportabile sofferenza, s’intreccia con l’altra, quella dell’uomo con le sue fragilità e la sua umanità, un uomo legato ai ricordi di una famiglia d’origine, non perfetta sicuramente, ma comunque una famiglia. Un nucleo familiare dove c’è un padre severo e distante, due occhi impenetrabili che “sembravano rimproverare il mondo”, guardati da Luca con rispetto e soggezione, un maestro di violino che ha scelto di abbandonare la famiglia, ma che, tuttavia, gli ha trasmesso l’amore per la musica, e dove c’è una madre dolcissima, anche lei insegnante di canto lirico, che vive nella casa al terzo piano di via Boulibert, a Parigi, quella città “bella, rassicurante e colta”, destinata a diventare poi il luogo di elezione di Luca Montelli. A questa donna, dagli occhi azzurri e l’espressione gioiosa, che “ha insegnato al figlio a volare con i sogni”, il protagonista appare legato da un amore talmente profondo da non trovare il coraggio di rivelarle la sua malattia, pur di non vederla soffrire.

Di questa dimensione umana fa parte l’amore inconsolabile per Marie, incontrata per caso all’angolo della Rue des Voiliers, bellissima con i suoi capelli ramati, scompigliati dal vento.

È un personaggio, Marie, su cui vale la pena di soffermarsi, perché è forte l’accostamento che si può fare tra questa figura e le tante figure femminili presenti-assenti, quelle donne dal valore salvifico, quasi angeli dello Stilnovismo, che costellano la poesia di Eugenio Montale. Ne “Le Occasioni” il poeta genovese aveva fatto ricorso a queste figure femminili, viste come tramite di salvezza. Clizia, Gerti, Dora Markus, Liuba, La Volpe erano donne presenti nel ricordo, ma assenti perché il tempo cancella tutto e tutto è destinato a rifluire nell’oblio. Queste donne, come messaggere angeliche, per un momento rivivono nel cuore del poeta, rischiarando il buio del desolato presente, rompendo l’agghiacciante silenzio attorno all’uomo.

Anche per Luca Montelli, Marie, questo personaggio femminile così etereo, così evanescente, è una figura presente-assente. Non c’è, ma è presente perché evocata nel ricordo e rappresenta una rassicurante oasi di pace e di conforto, capace di restituirgli il sorriso, come lo stesso Luca dice in un passo del libro “Ho grande nostalgia della sua tenerezza e di quello che riusciva ad ispirarmi. Ritorna in me il sorriso ripensando a lei, alla sua bellezza, all’amore che mi donava…”.

Un personaggio, quello di Marie, dalle diverse sfaccettature, che in altre parti del libro richiama più che le creature soprannaturali di Dante e degli Stilnovisti, quel personaggio petrarchesco di Monna Laura, tutto umano e terreno, fonte dell’amore sensuale che ispira alcune pagine del testo di Albano: “Adagiai Marie… su quel divano, spogliandola della sottoveste e ammirandola nella sua nudità dolce e fatta di inconsapevole sensualità… Fu un continuo cercarsi e incontrarsi coi nostri corpi, finché Marie rimase immobile con la sua carne nuda sotto di me… e mi disse: “Luca, voglio un figlio da te, concepiamolo adesso, qui”.

C’è poi nel libro di Giovanni Albano una terza dimensione, quella dell’intellettuale orgoglioso e vanaglorioso, tutto teso al raggiungimento del Trionfo letterario, che ha innalzato un altare all’Arte e che, persino ora che è vicino alla morte, fa prevalere come pensiero dominante quel suo ultimo romanzo dal quale spera di raggiungere la gloria letteraria.

Questo aspetto è preponderante in tutto il libro, e in esso è possibile riscontrare molti elementi in comune con la figura dell’intellettuale decadente novecentesco. Sicuramente, in Luca Montelli non è ravvisabile il “Bohémien” francese e neppure lo “Scapigliato” milanese, in Luca è ravvisabile invece la figura dell’intellettuale “esteta” alla D’Annunzio, col suo vivere inimitabile, con il suo desiderio di fare della propria vita come si fa un’opera d’arte”. E Luca Montelli ci appare fin da subito come la contrifigura, il corrispettivo di Andrea Sperelli, il protagonista del romanzo “Il Piacere” di Gabriele D’Annunzio. Entrambi rappresentano “l’esteta”, colui che assume come valore supremo della propria vita il Bello, si colloca in una sfera di assoluta eccezionalità rispetto agli uomini comuni, va alla ricerca di sensazioni rare, squisite. In entrambi i romanzi è possibile ravvisare tematiche affini: il vagheggiamento del lusso, il fascino della “malattia” intesa come segno di distinzione rispetto alle masse, la morte come voluttà di annientamento.

Nel libro è presente poi un altro aspetto collegabile allo scritto di D’Annunzio, ed è l’estrema raffinatezza dello stile, il linguaggio a volte iperletterario, con l’uso di termini preziosi e spesso musicali, con i numerosi riferimenti eruditi e le citazioni letterarie.

In questo mondo, quello dell’Arte, Luca Montelli si è chiuso fin da bambino, quando preferiva la solitudine alla compagnia, e poi da adolescente, quando, così diverso, rimaneva stupito dalla grettezza del pensiero dei coetanei e dalla banalità del loro vivere quotidiano, lui che, fin da piccolo si era abituato a leggere Salgari, Verne, Kipling, e che, a quattordici anni sapeva discorrere di Flaubert o di Joice, lui che diverrà il più giovane scrittore italiano a meritare il premio “Campiello” e il “César”,

e a diventare membro dell’Académie francaise.

Per questo mondo, per l’Arte, per la gloria letteraria, Luca ha sacrificato tutta la sua esistenza, la vita vera, quella che è fatta delle banali cose quotidiane della gente comune, dei conforti dell’amore, decidendo invece di non assecondare il desiderio legittimo di Marie di avere un figlio da lui, un figlio che, perpetuando Luca nel tempo, non gli avrebbe permesso mai di morire definitivamente.

Peccato che solo nella malattia e nell’attesa della morte Luca abbia compreso i suoi errori, primo fra tutti quello di aver ignorato il desiderio di Marie, un figlio, vissuto da Luca come un limite alle sue aspirazioni, come un insulto alla sua idea di vivere nell’arte e per l’arte. Adesso, soltanto adesso che è impossibile tornare indietro, Luca sente la nostalgia e il rammarico di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Come si vede, nella seconda parte della sua vita, Luca sembra essere cambiato. Non c’è più nulla in lui “dell’eroe” della gioventù. Luca appare ora uno sconfitto. E proprio in  questa fase il personaggio di Luca Montelli, uomo e scrittore, sembra assomigliare a quei poeti Crepuscolari del Novecento, come Guido Gozzano o Sergio Corazzini, vinti dalla nostalgia e dalla malinconia, poeti che esprimono , attraverso il loro peculiare tono languido e sentimentale, la stanchezza del vivere. Loro, poeti disillusi, privi di ragioni, di scopi, di fedi, non riuscendo a intravedere speranze di riscatto per il futuro, si rifugiano nel passato, nell’attaccamento ai ricordi. Anche Luca trova rifugio nel passato e, con tono mesto, “crepuscolare” appunto, esprime la sua nostalgia: “Non so cosa darei per ritornare indietro nel tempo… di colpo m’invade un pianto timido e senza scampo. Comprendo adesso che avrei avuto bisogno dei peccati più banali e non della voluttà dell’ambizione, delle vanità più profonde e disperate e smettere di confrontarmi con un mondo imperfetto e banale. Solo adesso, in quest’ultimo percorso di dolore, sto comprendendo che avrei dovuto imbattermi negli innocui delitti della gente comune, mettendo da parte quell’intransigenza di pensiero che non mi ha permesso di vivere amori e affetti”.

E, facendo un salto indietro di un secolo, Luca Montelli appare vicinissimo a quel personaggio dei Colloqui di Guido Gozzano che è Totò Merumeni, quell’uomo “di tempra sdegnosa, molta cultura e gusto in opere d’inchiostro”, lucido nell’osservare la vita, il suo vuoto e la sua inutilità, il filosofo che ha scelto l’esilio, disdegnando la società borghese del suo tempo. In definitiva, Luca, come già Totò, ha tutta l’aria di rappresentare “l’uomo nuovo” del Novecento, colui che esprime la malattia del secolo, cioè l’incapacità di aderire al ritmo dell’esistenza, in una parola “l’inetto”.

Sulla figura dell’inetto ci sarebbe molto da dire, se non altro perché questa figura è stata al centro di molti interessanti romanzi del panorama letterario europeo come “Con gli occhi chiusi” di Federico Tozzi, “Il fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello, “Senilità” e “la Coscienza di Zeno” di Italo Svevo. Con quest’ultimo romanzo, soprattutto, lo scrittore triestino ha costruito attorno alla tematica dell’inettitudine un vero capolavoro. L’inetto è l’uomo dal pensiero eversivo, spaventosamente lucido e disincantato, che vede nitidamente gli inganni, le costrizioni, i compromessi del vivere sociale ed è incapace di aderire alle sue regole, conformandosi. E Luca Montelli, come già Zeno, rappresenta forse la figura dell’inetto del terzo millennio. Anche lui è un disadattato, anche lui non si allinea, né da bambino, solitario e pensieroso, né da adolescente, incompreso dai coetanei proprio per quelle sue doti intellettuali che ne fanno un diverso, né da adulto, con i suoi molteplici interessi che vanno dalla musica alla pittura a tutte le forme d’arte, alla frequentazione delle biblioteche, alle letture incessanti, allo speciale rapporto di familiarità con il suo Cartesio, il suo Pascal, il suo Prévert, il suo Beckett. Anche Luca, come Zeno, grazie al suo pensiero spregiudicato, non può non fare una lucida analisi della società del suo tempo, giudicando i rapporti familiari, di amicizia, d’amore, il matrimonio, i legami eterni, come sovrastrutture, regole create dall’uomo, alle quali dunque non riesce a conformarsi. Questa inettitudine però sarà la ragione della sua profonda sofferenza.

Un altro aspetto poi collega il romanzo di Giovanni Albano a quello di Svevo, ed è la tecnica narrativa. Svevo, come altri scrittori europei, iniziatori del romanzo del Novecento, aveva dato vita a  un romanzo più riflessivo che narrativo, facendo scomparire la voce del narratore esterno e sostituendola con il cosiddetto “flusso di coscienza”, cioè la registrazione in presa diretta dei pensieri. Ed è proprio ciò che ritroviamo nel testo  di Giovanni Albano, un romanzo che registra pensieri, ricordi, emozioni, riflessioni, con un andamento narrativo fatto di salti all’indietro, flasch-back, salti in avanti, in un intreccio continuo, che non finisce mai, e che costituisce uno dei pregi del libro.

Un libro, dunque, quello di Albano, che è tante cose: un romanzo psicologico, un romanzo di amore e morte, una lunga riflessione filosofica sulla vita. Ma queste cose sono evidenti e forse si sono già dette.

Quello che va approfondito invece è l’aspetto del “dolore” che permea , dalla prima all’ultima, le pagine. Un dolore che può essere interpretato come una forma di riscatto per una vita spesa nell’egocentrismo, nell’indifferenza verso gli altri, di cui è Luca stesso a rendersi conto quando dice: “Forse, mi sono meritato tutto quello che mi è accaduto, per quanto ero irriverente con la mia aria di solida e spavalda intelligenza”. Una vita spesa in amori fallaci, in un rapporto con l’universo femminile che, escluso quello con Marie, e forse neppure quello, viene usato da Luca, asservito al proprio io, a cominciare da Noha e poi a Fasquelle, ad Aika, a Ileana, a Luisa e, per finire, a Bitsi, la misteriosa studentessa della Sorbona, innamorata di Dostoewsky e soprattutto de “I fratelli Karamazov”, l’unica forse verso la quale Luca sa provare un sentimento sincero, una donna difficile da dimenticare, probabilmente perché è proprio lei ad averlo abbandonato.

Allora, questo corpo dilaniato dal dolore, quest’anima lacerata dalla sofferenza sembrano esprimere forse una pressante esigenza di riscatto e di salvezza, una voglia, neanche tanto nascosta, di espiare per approdare a una dimensione religiosa e spirituale con cui Luca non si è mai confrontato. Forse il dolore è una supplica, una preghiera di perdono a Dio, che prima non aveva trovato posto nei suoi pensieri. E forse, se consideriamo il finale a sorpresa della storia, il perdono arriva, ma Luca non lo saprà mai.

Infine, c’è un ultimo aspetto che rende pregevole quest’opera e che vale la pena di evidenziare. Il libro di Giovanni Albano è uno scritto pieno di poesia. Leggere passi poetici come: “Penso che sarò adagiato in una camera dolce e calda come su una foresta di fiori viola e fumenti profumati che evaporano verso un Cielo eterno”, oppure “Dalla mia carne sbocceranno dei fiori viola che rimarranno sempre freschi e odorosi”, oppure “La notte è amica degli amanti, dei poeti, dei sognatori ma anche di chi soffre, e compagna della stessa morte”, significa sentire il proprio cuore vibrare.

Tanti sono gli spunti poetici e tutti, come piccoli fiori nati spontaneamente da una terra brulla, sono capaci di esaltare e regalare emozioni. Anche questo aspetto rende il libro di Giovanni Albano un autentico, piccolo gioiello, che è come se fosse stato cesellato da un artista, dove bellezza e creatività s’incontrano per farne qualcosa di unico. A questi due elementi, però, come essenziali della poesia, sicuramente se ne deve aggiungere un terzo: l’intelligenza, perché per Giovanni Albano la poesia non può essere solo “inconsapevolezza del genio”, non può essere solo “forza istintuale caotica” secondo la visuale del Romanticismo, ma, come si evince dalla lettura del suo Saggio “La teorizzazione della comunicazione poetica” del 2014, l’approccio alla poesia deve essere attuato anche con la cultura, la conoscenza e la sensibilità.

C’è un’espressione che campeggia proprio nella prima pagina del Saggio: “La Poesia è ragione messa in musica”. Questa espressione di Francesco De Sanctis rende chiara l’idea di cosa sia la poesia per Giovanni Albano.

E quest’idea si evince nella forma, nella timbrica linguistica, nella scelta delle parole, nella loro collocazione musicale anche dei passi poetici che permeano le pagine del libro “Alle porte dell’alba”.   

 

                                                                                                  

                Cettina Costa

 




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