Milazzo: presentato il libro sul giudice Livatino a villa Vaccarino
15 Luglio 2021
"Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui” (E. Pound) "Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso" (N. Mandela)
E’ stato presentato nei giorni scorsi nella splendida cornice del “Giardino Letterario di villa Vaccarino” il libro “Nessun uomo è luce a se stesso” scritto da Michele Barbera. All’incontro sono intervenuti l’assessore ai beni culturali Francesco Alesci, l’autore, che ha dialogato con la docente di italiano e latino Pina D’Alatri e il rettore dell’Università popolare comprensoriale filippese di San Filippo del Mela, Pino Privitera.
<Un libro che non è una semplice biografia del giudice Rosario Livatino – è stato sottolineato – ma va oltre, spingendosi all’estremo territorio dello spirito, diventando indagatore dell’anima ed interrogando il lettore nei recessi profondi della coscienza. La barbara uccisione del magistrato agrigentino è, così, occasione di richiamo ad una riflessione sui valori che hanno illuminato il cammino terreno di Rosario Livatino e il suo martirio. Nel libro è evidente che Barbera non usa mezzi termini nella condanna alla mafia. Ma accanto alla condanna, che richiama quella di Giovanni Paolo II e di Papa Francesco, c’è il richiamo alla fede, alla conversione, il perdono del peccato, la possibilità del cambiamento, la voglia di riscatto da una condizione umana fragile, in perenne equilibrio tra bene e male.>>
Un giudice anonimo, sconosciuto alla ribalta mediatica, che svolgeva in silenzio ogni giorno il suo difficile compito di tutore della legalità in una terra bagnata dal sangue di tanti innocenti, vittime della violenza luciferina della mafia. Eppure, oggi, a trent’anni dalla sua morte, il suo ricordo è vivo, la sua memoria integra, la voglia di conoscerlo tanta.
“Nessuno è luce a se stesso”, il titolo che ho voluto dare a questo saggio, una ricerca pluridisciplinare sugli eventi e sulle dinamiche che condussero alla morte del “giudice ragazzino”, non è solo una frase ad effetto, ma un programma di vita.
L’ho mutuata dal testo di una conferenza che Rosario Livatino tenne nella sua città, Canicattì. Ritengo che in questa frase sia celata la chiave dell’anima di Rosario Livatino, la sua cifra esistenziale. L’alchimia di sentimenti e fede, l’amore per la giustizia e per il prossimo, la testimonianza silenziosa e prorompente della sua figura, sono racchiuse nell’infinito sentire di questa breve espressione.
Ancora più che nell’acronimo “S.T.D.”, Sub Tutela Dei, con cui Rosario Livatino amava contraddistinguere i propri scritti intimi, le sue agende, come quella che hanno trovato accanto al corpo il giorno del suo omicidio.
O, meglio, martirio.
Proprio da lì, da quando tutto è finito o, forse, da quando tutto è iniziato, trae le mosse il mio desiderio di conoscere questo straordinario figlio di una terra tanto aspra quanto generosa.
In quell’assolata campagna dell’entroterra siciliano, in quelle contrade care a Sciascia e Pirandello, metafora di una dimensione dello spirito, lì, dove si è compiuto il martirio di Rosario Livatino.
Un martirio profeticamente annunciato da San Giovanni Paolo II, un martirio la cui considerazione ha avuto una costante progressione ed una conclamata adesione della Chiesa agrigentina nel processo diocesano, aperto dal Cardinale Montenegro, e condotto da don Giuseppe Livatino, cugino del Giudice e postulatore della causa, per elevare Rosario Livatino agli onori degli altari.
La dedizione di Rosario Livatino al proprio lavoro, visto come occasione di santificazione e “di dedizione di sé a Dio”, accosta la sua figura ad una concezione moderna e viva di santità universale, una santità che vuole rendere testimonianza eccelsa alla fede anche nell’adempimento eroico del proprio dovere quotidiano, sino all’estremo. Il martire non fugge dalla morte ma dal peccato.
Nella distorsione eretica della mafia, dove i simboli religiosi sono profanati ed offesi da intenzioni e cerimonie blasfeme, la purezza del pensiero di Rosario Livatino, la sua costante testimonianza, prodiga di attenzione e carità di fede verso coloro che era chiamato a giudicare, erano avversari temibili e odiosi.
Un odio che ha acceso una ritorsione crudele, feroce, demoniaca.
L’analisi di quanto accaduto il ventuno settembre di trent’anni fa, senza trascurare i riferimenti criminologici all’ “effetto Lucifero”, nel saggio apre la riflessione sul concetto di “martirio” e dell’”odium fidei”, un luogo teologico, che caratterizza la testimonianza suprema del credente, la sua costanza nella fede, pur nelle avversità del cammino terreno.
Dagli emblematici casi dei primi martiri della fede sino all’epoca contemporanea, già a partire da Pio XII con l’esempio di Maria Goretti, la difesa dei valori della fede, e, dunque il martirio, ha assunto vesti teologiche più ampie. Che vanno, necessariamente, a ricomprendere tutti quei casi in cui il martire è stato ucciso in quanto testimone vero e coerente del suo credo e di tutto ciò che la fede in Dio significa e che si esprime anche nei valori di giustizia, della carità e dell’amore verso il prossimo in quanto “immagine di Dio”, come ha affermato proprio Rosario Livatino. Egli “ha sovvertito il ruolo del giudice abbracciando la coscienza del prossimo e rendendo la giustizia umana, espressione di amore e verità. Sotto la tutela dello sguardo divino.”
Ora, non mi resta che augurarVi Buona Lettura, nel ricordo della testimonianza di Rosario Livatino che affido al Vostro cuore, oltre che alla Vostra riflessione, per accompagnarlo nel cammino comune di santità.
By Michele Barbera
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